La Traccia
Le lotte contro leggi ingiuste accompagnano la storia dell’umanità. Sotto regimi totalitari, queste lotte hanno assunto connotati anche violenti, come l’esperienza della resistenza armata al nazifascismo ci insegna. Oggi, invece, nello Stato di diritto, assistiamo più spesso a episodi di disobbedienza non violenta, quali, a titolo esemplificativo, quelli che hanno visto coinvolti Mimmo Lucano, Carola Rackete e Marco Cappato. Di fronte a questi episodi, spesso, è stato rievocato il concetto di origine anglosassone di “disobbedienza civile”, che la filosofa Hannah Arendt così definisce:
“C’è una differenza sostanziale tra il criminale che cerca di sottrarre i propri atti agli sguardi della collettività e colui che pratica la disobbedienza civile sfidando la legge in maniera manifesta. Questa distinzione tra una violazione clandestina e una violazione aperta della legge, operata in pubblico, è talmente palese che può essere ignorata solo per pregiudizio o malafede. È riconosciuta da tutti i principali studiosi dell’argomento ed è chiaramente la base da cui partire per il riconoscimento della disobbedienza civile come compatibile con la legge e le istituzioni governative […] chi pratica la disobbedienza civile, pur agendo in disaccordo con la maggioranza, opera nel nome e nell’interesse di un gruppo; sfida la legge e le autorità costituite per manifestare un dissenso non perché vuole fare un’eccezione per sé e beneficiarne come individuo”.
A tuo parere, al giorno d’oggi, è ancora giusto appellarsi alla disobbedienza civile? Vi sono avvenimenti, anche stranieri o della storia meno recente, che possono essere identificati come episodi di disobbedienza civile secondo la definizione sopra riportata? E, soprattutto, nello stato di diritto la violazione di una legge ritenuta ingiusta è, secondo te, la strada giusta da percorrere?