Martina Giacobbe - PresidenzaCarlo Giacobbe, mio padre, era un politico, mia madre è un magistrato. Sono cresciuta, quindi, con l’idea che le regole andassero rispettate. Anche quando ho iniziato ad andare in manifestazione durante il primo anno delle Superiori ero consapevole di esercitare un mio diritto. Al terzo anno di superiori ho aderito alla cosiddetta cogestione presso il Liceo Scientifico “Orazio Grassi” contro la “Riforma Gelmini” con la stessa convinzione. Lo stesso anno, però, ho letto Antigone di Sofocle e qualcosa è cambiato. La verità è che la figura di Antigone mi ha affascinata, anche se non riuscivo a condividere del tutto quel tipo di protesta. 

Quel “fascino” che ho provato verso chi si ribella a leggi ritenute ingiuste ha, però, trovato un senso più compiuto due anni dopo, grazie ad Hannah Arendt. 
Se mi avessero, dunque, chiesto di scrivere un saggio sul tema della disobbedienza civile alla fine delle superiori, avrei sicuramente citato Antigone e Hannah Arendt. E anche oggi, ovviamente, queste due donne fungono da lente per comprendere gli episodi di disobbedienza civile del passato e del presente. 

Ma cercando spunti per questo contributo, ho notato che, in bella vista nella mia libreria, oltre ad Antigone di Sofocle e Le origini del totalitarismo di Arendt, spiccano due immagini degne di entrare in una riflessione sulla disobbedienza civile. La prima è una riproduzione della famosa foto segnaletica dell’attrice Jane Fonda, arrestata nel 1970 durante le sue proteste contro la guerra nel Vietnam; la seconda è una stampa di un’opera del misterioso street artist Banksy, apparsa per la prima volta fuori dal Parlamento britannico nel 2003 e raffigurante due soldati intenti a dipingere il simbolo della pace con una bomboletta spray rossa.

Jane Fonda, classe 1937, conosciuta al grande pubblico per la sua carriera da attrice e per i suoi video di aerobica, è salita agli onori della cronaca negli anni ’70 del secolo scorso, anche, per le sue posizioni contro la Guerra nel Vietnam. Dopo aver lasciato il suo primo marito, infatti, nel 1968 l’attrice torna negli Stati Uniti iniziando a partecipare alle proteste per i diritti civili con i membri del Black Panther Party. Cercando di reagire in opposizione alla brutalità della polizia contro gli afroamericani, l’attrice si allineò con l’organizzazione, fornendo rifugio ai membri, tenendo raccolte di fondi a casa sua, contribuendo con donazioni al movimento e visitando Angela Davis nella prigione della contea di Marin. Il suo coinvolgimento nella causa del Black Panther Party arrivò fino a suscitare la sorveglianza del governo.

Ma il suo impegno da attivista divenne sempre più intenso quando Fonda, che in precedenza era andata a trasmissioni radio per aiutare a reclutare truppe per il Vietnam, divenne una convinta attivista contro la guerra. Questa drastica reinvenzione portò i detrattori a definirla antipatriottica. Iniziò a partecipare a tour di conferenze in tutto il Paese per diffondere il messaggio di porre fine alla guerra in Vietnam, durante i quali incontrò i prigionieri di guerra e guidò le proteste. 

Nel 1972, Fonda decise di visitare il Vietnam del Nord per due settimane per parlare contro la politica militare americana e per osservare in prima persona la violenza contro cui protestava. Durante trasmissioni radiofoniche, implorando i piloti militari di pensare al loro impatto, Fonda sostenne che l’esercito americano aveva pianificato di colpire strategicamente il sistema di dighe nel Vietnam del Nord immediatamente prima della stagione dei monsoni, che avrebbe poi causato drammatiche inondazioni, potenzialmente annegando circa duecento mila cittadini, e la fame di massa per la popolazione locale. Le immagini e le dichiarazioni controverse e combattive di Fonda contro i prigionieri di guerra suscitarono lo sdegno viscerale del pubblico americano, dipingendo Jane come una militante antipatriottica, e spinsero persino alcuni politici a suggerire che le sue azioni potessero rientrare nel reato di tradimento. 

Dopo questo periodo di protesta attiva, Fonda iniziò a usare altri mezzi come veicolo per esprimere i suoi ideali e per affrontare in modo creativo le questioni che le stavano a cuore. In particolare, tornò al cinema e alla sua carriera di attrice e, traendo ispirazione in conversazioni con alcuni veterani, realizzò Coming Home, portando sul grande schermo la storia di un veterano ferito, una donna e suo marito Marine, film che le ha fatto guadagnare il suo secondo Oscar come miglior attrice. 

Con il film del 1980 9 to 5, interpretato da lei stessa, Dolly Parton e Lily Tomlin, mise in evidenza la difficile situazione della donna che lavora, sottolineando i problemi delle molestie sessuali, la disparità di retribuzione e la mancanza di assistenza ai bambini.

Jane Fonda, inoltre, è conosciuta in tutto il mondo per i suoi video di aerobica super iconici. Incredibile pensare che anch’essi fossero radicati in una delle sue tante cause politiche. Insieme al suo allora marito Tom Hayden (per capire meglio di chi stiamo parlando, se non lo avete ancora visto, consiglio il film del 2020 diretto da Aaron Sorkin, Il processo ai Chicago 7), la coppia di attivisti fondò il comitato Campaign for Economic Democracy. L’organizzazione era dedita a diffondere il messaggio che una vera democrazia comporta la ridistribuzione della ricchezza e il trasferimento di potere dall’uno per cento più ricco d’America e dalle sue corporazioni più ricche al grande pubblico del paese. Mentre avevano un disperato bisogno di fondi nel mezzo di una recessione, Hayden e Fonda iniziarono a pensare a diverse idee commerciali per aiutare a raccogliere fondi sia per la causa che per la campagna di Hayden per l’assemblea statale. Da ciò nacque il video domestico numero uno di tutti i tempi, Jane Fonda’s Workout. Di proprietà della Campaign for Economic Democracy, la VHS vendette più di 17 milioni di copie, e tutti i profitti andarono all’organizzazione. 

Alla soglia degli 85 anni, Jane Fonda continua a essere parte attiva in vari movimenti di protesta (quali #MeToo, Black Lives Matter), ma attraverso la sua ultima campagna, Fire Drill Fridays, ha dato una lezione vecchia scuola su come protestare contro l’inerzia e le responsabilità dei governi nella lotta al cambiamento climatico. Nell’autunno 2019, Fonda ha collaborato con Greenpeace e si è trasferita a Washington D.C. per diversi mesi tenendo manifestazioni sui gradini dell’edificio di Capitol Hill ogni venerdì per combattere per la riforma legislativa ambientale e il Green New Deal. È stata arrestata più volte per disobbedienza civile, tornando ancora una volta protagonista dei titoli dei giornali per il suo attivismo. Fonda ha continuato i Fire Drill Fridays virtuali in mezzo alla pandemia di COVID-19, ospitando discussioni via Instagram Live con altri attivisti, figure politiche e celebrità.

Ma, come già accennato, il cinema di Jane Fonda non è l’unico esempio “pop” di denuncia e protesta civile contro leggi ritenute ingiuste di cui voglio parlare. 

Infatti, nessun tipo di arte è più ontologicamente segno di protesta della street art e i graffiti di Banksy non fanno eccezione, anzi. Il lavoro di Banksy è nato nella scena culturale underground di Bristol e i suoi murales – che oggi si trovano sui muri di tutto il mondo – dal taglio satirico e provocatorio trattano tematiche tra quali le assurdità della società occidentale, la manipolazione mediatica, l’omologazione, le atrocità della guerra, l’inquinamento, lo sfruttamento minorile, la brutalità della repressione poliziesca e il maltrattamento degli animali, cercando di sensibilizzare il pubblico. 

Per fare alcuni esempi, nel 2005, Banksy si è recato in Palestina, ove ha realizzato ben sette murales sul West Bank Wall in segno di protesta contro la segregazione del popolo palestinese; nel maggio 2019, durante l’inaugurazione della 58ª Biennale di Venezia realizza il murale Naufrago bambino a sostegno dei migranti che vengono bloccati in mare dalla politica anti-immigrazione italiana; atto per il quale la Sovrintendenza, come atto dovuto, ha presentato una denuncia contro ignoti per violazione del Decreto Legislativo n. 42/2004 che impone la richiesta di autorizzazione ad intervenire con decorazioni pittoriche sulle pareti dei palazzi vincolati. 

Forse Arendt non pensava a Fonda e Banksy quando ha definito chi pratica la disobbedienza civile come colui che “pur agendo in disaccordo con la maggioranza, opera nel nome e nell’interesse di un gruppo; sfida la legge e le autorità costituite per manifestare un dissenso non perché vuole fare un’eccezione per sé e beneficiarne come individuo“, ma direi che la definizione si adatta anche a loro perfettamente.